Come ha evidenziato il rapporto “Il cervello in ascolto – Lo stretto intreccio fra udito e abilità cognitive”, realizzato da un gruppo di esperti avvalendosi della revisione degli ultimi dati sull’argomento, quando viene meno una corretta stimolazione sensoriale anche il cervello “si inceppa”.
In definitiva esiste un vero e proprio circolo vizioso bidirezionale che unisce la diminuzione dell’udito e il declino cognitivo.
I dati evidenziano che non sentire più bene, eleva di tre volte il rischio di deficit cognitivi, ma anche che in tre casi di demenza su quattro c’è un calo dell’udito.
L’estrema interconnessione tra le funzoini cerebrali è alla base di questo fenomeno, come sottolinea Andrea Peracino della Fondazione Lorenzini di Milano – Houston che ha partecipato alla stesura del documento: «Gli stimoli uditivi attivano molte aree cerebrali: una parola “accende” non solo le aree dove viene sentita ma anche quelle dove è compresa. Se ascolto dire “mamma” questo suscita ricordi, sensazioni e il cervello di conseguenza viene attivato al di là delle aree uditive; è però vero anche il contrario, ovvero che i processi cognitivi incidono sul modo in cui le persone sentono».
Qualunque sia il modtivo del circolo vizioso resta il fatto che un deficit uditivo lieve, moderato o grave aumenta, rispettivamente, di 2, 3 e 5 volte la probabilità di deterioramento cognitivo.
Come è consigliabile dunque intervenire? Riconoscere un calo dell’udito e porvi rimedio è senza dubbio il primo passo, anche se pochi lo fanno: in Italia ci sono 7 milioni di persone con difficoltà uditive ma solo 1,8 milioni usano gli apparecchi acustici che peraltro, visti i risultati delle più recenti ricerche, dovrebbero essere scelti e calibrati anche tenendo conto delle capacità cognitive del paziente.
«Interventi tempestivi con una giusta amplificazione oltre a migliorare la qualità di vita rallentano il declino cognitivo nell’arco di 25 anni — interviene Gaetano Paludetti, direttore del Dipartimento di otorinolaringoiatria dell’Università Cattolica di Roma e coautore del rapporto —. Secondo le stime ritardare di un solo anno l’evoluzione dell’ipoacusia potrebbe ridurre del 10% la prevalenza della demenza nella popolazione generale».