Qualunque sia il motivo del circolo vizioso che può instaurarsi tra orecchio e cervello (vedi articolo del 10 dicembre) resta il fatto certo che, un deficit uditivo lieve, moderato o grave aumenta, rispettivamente, di 2, 3 e 5 volte la probabilità di deterioramento cognitivo.
Come si può dunque intervenire? Indubbiamente il primo passo sta nel riconoscere il calo uditivo sottoponendosi dunque ad esami specifici. In realtà poi sono poche le persone che lo fanno realmente. Basti pensare che in Italia ci sono 7 milioni di persone con difficoltà uditive ma solo 1,8 milioni usano gli apparecchi acustici che peraltro, visti i risultati delle più recenti ricerche, dovrebbero essere scelti e calibrati anche tenendo conto delle capacità cognitive del paziente.
Secondo Gaetano Paludetti, direttore del Dipartimento di otorinolaringoiatria dell’Università Cattolica di Roma: «Interventi tempestivi con una giusta amplificazione oltre a migliorare la qualità di vita rallentano il declino cognitivo nell’arco di 25 anni. Secondo le stime ritardare di un solo anno l’evoluzione dell’ipoacusia potrebbe ridurre del 10% la prevalenza della demenza nella popolazione generale».
Un risultato tutt’altro che trascurabile, data l’evidente diffusione preoccupante delle patologie cognitive.
Naturalmente sarebbe altrettanto indispensabile salvaguardare l’udito a lungo, per esempio proteggendosi dall’eccesso di rumore che si sa essere negativo per la salute dell’apparato uditivo o magari allenandolo con l’ascolto di note piacevoli.
A tal proposito si è scoperto che la musica classica a volume moderato consente di ridurre le alterazioni dell’udito correlate all’età e protegge dai deficit.